
Scjaraçule maraçule. Un brano maledetto, Giorgio Mainerio, l’Inquisizione, Belenos e il monaco Anselmo

Nel mio volume Lupi, come molti di voi sanno, il monaco Anselmo e il suo giovane compagno Gregorio si trovano bloccati in un borgo disperso dove accadono inspiegabili e cruenti delitti. Ma i lettori più attenti, in particolare se friulani, avranno notato che la taverniera, a un certo punto e per smorzare la tensione, si mette a intonare una melodia che inizia con due strane parole. Scjaraçule maraçule. In quel frangente Anselmo si irrigidisce e, a una domanda del suo confratello, risponde che quel canto lui lo ha già udito ed è un’invocazione a divinità che avrebbero essere scomparse da tempo. Qualcosa di demoniaco, insomma. E in quel borgo, evidentemente, certi riti blasfemi ancora non sono stati dimenticati.
Così la narrazione del libro che mischia realtà storica e finzione. Il Friuli, per chi lo conosce, mantiene ancora oggi, molto più di tanti altri luoghi, una ricchezza di miti e un patrimonio culturale e folclorico non facilmente riscontrabile altrove, come la Toscana dove abito, ad esempio. Ciò causa, senz’altro, della sua posizione defilata ed esposta agli influssi più vari, ma soprattutto per la sua peculiarità dovuta alla sua storia che per molti secoli si identifica con quella del Patriarcato di Aquileia e per la sua cultura, anche religiosa. Tacendo dell’originalità della lingua friulana. Dal punto di vista strettamente religioso, già nell’antichità, la divinità di riferimento era Belenos cui era dedicata anche la stessa romana Aquileia e il suo tempio principale. Una continuità degna di nota, visto che i romani invasori decisero di non modificarne il nome in quello del dio più vicino, ovvero Apollo. Belenos, con i suoi culti dei fuochi praticati ancora oggi sotto altre forme, è anche una divinità associata alle acque, con culti ancora più antichi, Culti che con il cristianesimo si sono trasformati in devozione al grande battezzatore, il Battista, e poi a san Cristoforo, che aiuta nel passaggio delle acque, e passaggio è anche il rito del battesimo.
Si tratta di un discorso che ci porterebbe troppo lontano e che qui accenniamo soltanto. Anche se ci sarebbe moltoìissimo altro da dire. Ma torniamo a Scjaraçule Maraçule, un nome che a gran parte di chi mi legge non dirà niente, ma che molti hanno sicuramente ascoltato molte volte, considerato che è stato uno dei brani più famosi, ormai anni fa, di Angelo Branduardi e il pezzo di cui stiamo parlando è diventato celebre con il nome Ballata in fa diesis minore. Un brano che iniziava con le parole “Sono io la Morte e porto corona…” Ricordate, ora?
Eppure di quel testo, composto nel Cinquecento in Friuli, non si conoscono le parole, ad eccezione del titolo, già di per sé enigmatico. Si sa solo che già da subito ebbe una fama sinistra, così come la ebbe, fino a finire nelle mire dell’Inquisizione, il suo compositore, Giorgio Mainerio che pure fu musicista presso il Duomo di Udine e poi presso la Basilica patriarcale di Aquileia.
Eppure Scjaraçule Maraçule altro non era, probabilmente che uno dei tanti balli che giravano all’epoca e che erano talmente di moda all’estero che si parlava ovunque di balli alla furlana. Ma perché tanto sospetto su una semplice ballata? Della quale, per di più è andato completamente perso il testo tranne, forse, per alcune parole che vengono citate in una denuncia più tarda all’Inquisizione, ma su questo ci torneremo.

Diciamo che Giorgio Mainerio è stato un personaggio decisamente particolare, in un contesto, quello friulano del Cinquecento, molto vivace. Di probabile padre scozzese, dal 1560 al 1570 vive a Udine dove si dedica, come abbiamo visto, alla carriera musicale. Da subito, però, si comincia a vociferare circa le sue frequentazioni di strani riti notturni e di interessi nel campo della negromanzia, dell’occultismo e delle pratiche magiche. In un periodo nel quale la gerarchia ecclesiastica si faceva sempre più attenta (il Sant’Uffizio era stato istituito nel 1542), il tribunale dell’Inquisizione avviò un’indagine nei suoi confronti ma non si arrivò a un processo vero proprio, senza però togliere il sospetto nei suoi confronti. Anche per questo, Mainerio decise di trasferirsi nell’allora più tranquilla Aquileia dopo aver vinto un concorso e nel 1578 divenne Maestro di cappella presso la prestigiosa Basilica. Ma, ormai malato, vi morì nel 1582.
Relativamente celebre per le sue ballate, la fama di Mainerio è legata soprattutto a Scjaraçule Maraçule che però, non si capisce per quali motivi, venne utilizzata nei riti propiziatori per invocare la pioggia. Ricordiamo che l’acqua e la rinascita sono legati anche all’antico dio Belenos le cui caratteristiche verranno via via cristianizzate e inglobate in altri figure sempre legate all’acqua e ai riti di passaggio.
Non sorprende, quindi, ritrovare in un processo dell’Inquisizione aquileiese (Archivio della Curia Arcivescovile, fondo Inquisizione, processo n. 829) citare il brano di Mainerio in una denuncia al Tribunale. Una denuncia a cura del vicario di Palazzolo dello Stella e datata 10 giugno 1624, oltre quarant’anni dalla morte del suo autore.
Si denontia al Santo Offitio, qualmente certe donne supersti[ti]ose di Palazzuolo soggetto alla mia cura, contro ai riti di Santa Chiesa e della vera e sana religione, per impetrar la pioggia dal cielo la notte della Pentecoste alle cinque hore di notte in circa andavano processionando e lustrando la villa dentro e fuori cantando a due chori certa sua canzone che incomincia Schiarazzola marazzola a’ marito ch’io me ne vo’, et quello che segue a mezzo, sicome io son donzella, che piova questa sera, e tuttavia intravano a cantar queste parole e donne infami e maritate, e spesse volte si aggiungevano il falalela. Et poi essendo tre degani n villa s’ingegnavano ad ogn’uno di loro di rubare il vessuro o aratro per condurlo a tre cantoni della villa e quinci nasconderlo nell’acqua, dicendo questo esser vero rimedio per far venire la pioggia […]
Insomma, il brano Scjaraçule Maraçule veniva utilizzato nei riti per invocare la pioggia ancora nel 1624 dopo che in Friuli da decenni erano in corso i processi per stregoneria che qui sono molto ben documentati. Ovviamente, nell’area aquileiese non si arriverà mai agli eccessi di altre aree, ma ciò nonostante, il clima era tale che l’iniziativa di queste donne che nottetempo compiono i loro riti intonando una canzone ritenuta blasfema, va segnalato.
Così come dobbiamo segnalare che questo rito, da qual che si ricava dalla denuncia del vicario, assomiglia sin troppo a quello denunciato dal ben più celebre Burcardo, vescovo di Worms (950 ca. – 1025) nel suo Corrector sive Medicus, un libro penitenziale a uso del clero. Il rito, Scjaraçule Maraçule a parte, è esattamente lo stesso e identico è il suo scopo e il collegamento con l’acqua.
Il Friuli è distante dalle rive germaniche del Reno e, soprattutto, sei secoli separano i due documenti. Segno della grande diffusione e dell’ostinata persistenza di antiche pratiche pagane. Ma chi conosce il Friuli, sa anche che Belenos, in qualche modo, non è mai scomparse da quelle zone. E lo dice uno che da ragazzo, in occasione dell’Epifania (che un tempo concludeva un ciclo di giorni di passaggio di origini precristiane), assieme ai suoi compagni trascorreva la gelida notte accanto al fuoco del pignarûl.